IL CARO PREZZO E IL VALORE DEL CEMENTO di Giorgio Bardaglio


Ieri l’altro ho pesato mio zio, mio prozio, Emilio, ottantotto anni e un cuore ballerino che, tra tutte le danze, ha scelto il lento. Troppo lento. Era un uomo di settanta e passa chili, ora la bilancia ne segna a malapena cinquantuno. “Sei come un sacco di cemento” gli ho detto, sorridendo, lui, che tutta la vita ha fatto il fabbro, al cemento non aveva pensato. Io sì, perché ho visto mio padre costruirsi la casa pezzo per pezzo, il sabato, la domenica e i mesi come questo, ad agosto, quando gli amici andavano al mare, in montagna, mentre lui preferiva restarsene a gettare solette e posare mattoni, perché non aveva soddisfazione più grande di avere un’abitazione propria, dove poter piantare un chiodo nel muro senza che nessuno potesse proferire verbo. Così gli aveva insegnato il nonno e così ha insegnato a me, che pur ho ricevuto in eredità un patrimonio senza dovermi sporcare le mani, senza dover sudare più di tanto. Conosco però il senso del sacrificio e il peso esatto di un sacco di cemento. Cinquanta chili tondi, da mettere nella betoniera o mischiarlo alla sabbia a mano, col badile, aggiungendo acqua con giudizio.


Non sono un fondamentalista, rispetto a coloro che – come mio padre, la maggior parte dei brianzoli – hanno voluto costruirsi o comprarsi una casa, poco importa se isolata in una frazione di campagna o tra mille altre, in pieno centro. Non volevano solo un tetto per ripararsi dalla pioggia o un termosifone acceso, per l’inverno, bensì un posto dove vivere sereni, senza nessuno che un mattino potesse dirti: “Sloggia, non sei gradito”. Ecco perché, quando leggo certe invettive, certi discorsi massimalisti di chi vorrebbe solo campagna, boschi e prati, storco il naso. Primo perché di solito si tratta di persone che predicano bene ma razzolano male; secondo perché un conto è l’equilibrio, l’armonia con ciò che ci sta attorno, un altro è il passare dal niente al tutto, dalla disciplina zero a un rigore da monaco tibetano in perenne digiuno.
Per la stessa ragione, tuttavia, non siamo disposti a chiudere gli occhi nei confronti di chi ha sfruttato le legittime aspettative di ciascuno per un proprio tornaconto, costruendo a più non posso, senza criterio, mangiandosi in pochi anni un lembo di terra grande quanto il Friuli, solo per restare in Italia. Una corsa all’edificazione in cui, purtroppo, Monza e la Brianza sono al primo posto, guadagnandosi un primato di cui avremmo fatto volentieri a meno. La rabbia più grande, oltre che per l’ambiente distrutto, è per i frutti che ci restano in mano. Capannoni su capannoni, brutti, grigi, invenduti; palazzine incolori, sciatte, alte quanto il campanile del Duomo, senza un briciolo di bellezza, con le pareti di compensato e centinaia di appartamenti anch’essi invenduti. E’ stata una corsa all’oro in cui alcuni speculatori si sono arricchiti con la complicità di comuni, che pur di fare cassa, di incamerare soldi per alimentare la macchina burocratica non si sono fatti scrupoli, consentendo di occupare anche il più piccolo fazzoletto di verde. Una cecità, un’ottusità parente stretta delle bugie: con le gambe e il fiato corto. Non l’hanno fatto per noi, bensì per loro. Ed ora che la corsa all’oro è finita, che non ci sono più i soldi per comprare le case, ci ritroviamo a piangere lacrime di coccodrillo. Non diamo dunque la colpa al cemento, bensì alle mani voraci che l’hanno usato a sproposito. E cerchiamo di ricordare la lezione di chi, al cemento, sapeva dare valore, oltre che un prezzo.

 

Tratto da Il Cittadino di sabato 25 agosto 2012